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Disturbi psicologici e psicoterapia psicoanalitica

L’iperattività infantile in chiave psicoanalitica

Come riconoscere i bambini iperattivi?

La diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder) come dice il nome stesso implica una difficoltà a mantenere l’attenzione: il bambino fa fatica a focalizzare l’attenzione sulle attività che gli vengono proposte, ha difficolta a strutturare le attività che svolge e a portarle a termine, tende ad non svolgere attività che richiedono sforzo mentale protratto nel tempo, la sua attenzione è sviata da stimolazioni che provengono dall’esterno. Parallelamente ili bambino mostra segni di iperattività: si muove con irrequietezza, lascia il proprio posto, ha difficoltà a giocare, sembra “sotto pressione”, parla troppo. Il comportamento è caratterizzato inoltre da una marcata impulsività: spesso “spara” le risposte prima che le domande siano completate, ha difficoltà ad attendere il proprio turno, interrompe gli altri, è invadente.

Che differenza c’è tra un bambino iperattivo e un bambino vivace?

Ciò che può permettere di distinguere vivacità e iperattività è il rapporto tra il movimento e le funzioni psichiche del gioco.

Un bambino vivace, pur ricavando un forte piacere fisico nel muoversi, riesce a fermare la sua attenzione sul gioco, quando esso lo richiede, magari per un tempo limitato. Usa il gioco traendone appagamento e confort. Gioca in modo chiassoso ma, fondamentalmente, intrattiene un rapporto attivo con le funzioni del gioco. Domina la sua attività, non ne è dominato.

Un bambino invece il cui corpo è preda di un movimento incessante ed incoercibile non può focalizzare la sua attenzione su un’attività, di qualsiasi genere essa sia. L’aspetto più evidente nei bambini iperattivi è la ridotta o assente capacità di gioco.

La differenza tra un bambino vivace ed un bambino iperattivo risiede dunque nell’impossibilità del bambino iperattivo di usare il gioco nelle sue potenzialità creative e pacificatici. Giocare è stare senza la madre. I bambini iperattivi non sono in grado di usare il gioco nella sua funzione di sostituto materno e neppure di costruire, grazie al gioco, una relazione creativa e piacevole con gli oggetti esterni. L’interesse e la concentrazione necessari per giocare e in seguito, con l’ingresso nel mondo scolastico, per apprendere e studiare, implicano che il bambino, per poter stare, pur temporaneamente, senza la madre, abbia utilizzato il gioco come soluzione contro l’angoscia data dall’essere solo con se stesso.

Qual è il legame tra iperattività e scuola?

Nell’iperattività vi è sempre uno scarso o mancato incontro tra il bambino e l’ordine simbolico della legge, tra il campo degli impulsi e il mondo delle regole del vivere sociale. L’adattamento alle regole della convivenza coi propri simili implica una limitazione necessaria della propria libertà, e dunque dello spazio concesso al campo degli istinti e delle proprie pulsioni. Limitazione che è feconda perché che “stacca” il bambino dalla madre aprendo il campo alla relazione con l’altro da sé, con l’apprendimento e col desiderio. Questo incontro con il nuovo implica la possibilità di fermarsi di fronte al limite posto dall’altro. Per questa ragione il sintomo iperattività si manifesta nella sua massima potenza a partire dall’inserimento del bambino nel contesto della scuola primaria, dove diviene necessario adeguarsi alle regole del vivere sociale extra familiare. Sono infatti proprio gli insegnanti i primi a rilevare i segni dell’iperattività e a segnalarli ai genitori. Nel momento che sancisce la socializzazione del bambino, ovvero l’ingresso nella scuola, il corpo del bambino iperattivo “gira a vuoto”, non è in grado di agganciarsi agli oggetti culturali. L’attenzione e la concentrazione, che a loro volta permettono di apprendere, leggere, scrivere, necessitano che il corpo si fermi: la scolarizzazione implica sempre una limitazione del corpo del bambino e dei suoi impulsi. La scuola primaria impone una regolazione al movimento fisico e richiede un’attenzione che deve potersi applicare per molte ore sulle attività intellettuali scolastiche.

Si può curare l’iperattività?

Il bambino iperattivo non esprime in parole il suo malessere, il bambino iperattivo non dice “sto male”, non piange, non si chiude in se stesso. Eppure il suo movimento frenetico ed incessante mostra che in qualche modo lui stesso avverte che c’è qualcosa dentro la sua testa che si traduce nel corpo, qualcosa che il suo stesso corpo denuncia come una forza che non controlla. E’ il suo corpo che “parla” e dice: “Non riesco a fermarmi. I miei pensieri vanno troppo velocemente”. Il bambino iperattivo chiede di essere fermato.

Tuttavia il comportamento iperattivo non è un comportamento che si può curare affrontandolo direttamente, attraverso una terapia di disciplina, di educazione al rispetto delle regole e delle norme. Il comportamento iperattivo non domanda di essere semplicemente resettato mediante un suo adeguamento al campo sociale.

L’unica via per intervenire sull’iperattività è quella di far parlare il bambino, di permettergli di mettere in parola la sua angoscia, l’unica via è quella di dargli la parola in un contesto di ascolto senza domanda. Mettere in gioco il potere della parola equivale ad introdurre un canale in cui l’impulso, la pulsione come direbbe Freud, possa defluire ed essere mitigato.

Un’assenza di volontà educativa è dunque il punto di partenza per permettere al bambino di autoregolarsi. Questo è un messaggio importante da dare anche all’insegnante che col bambino iperattivo si trova ad avere a che fare. Infatti, paradossalmente, più il bambino iperattivo avverte nell’adulto un desiderio di regolare la sua agitazione, più si sottrae alla presa dell’adulto, aumentando la sua resistenza “fisica” all’altro. Anziché recedere, “alza la posta”.

Per far digerire a un iperattivo le condizioni minime della socializzazione bisogna compiere un lungo e impegnativo lavoro di alleanza fiduciosa. La lenta ma feconda costruzione di una buona relazione, buona nel senso che accetta di escludere la dimensione educativa, è l’inizio del possibile cambiamento. Il bambino deve sentirsi libero di scaricare non nel corpo, ma nella parola, quell’eccesso che lo ingombra e di abbandonare quel sintomo che lo sovrasta.

Per approfondire questi temi:

  • Umberto Zuccardi Merli U., Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori 2012.
  • Tognassi F., Zuccardi Merli U., Il bambino iperattivo. Dalla teoria alle pratiche della cura, Franco Angeli 2010.
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Disturbi psicologici e psicoterapia psicoanalitica

Infanzia: quando è opportuno rivolgersi allo psicologo? Come si caratterizza il suo intervento?

«Quando il bambino piange, grida, il padre o la madre devono cercare il senso degli urli o del pianto, e gli dicono: “Non so perché piangi, ma stai cercando di dirmi qualcosa”. Dobbiamo sapere che tutto nel bambino significa qualcosa. Nulla è gratuito […]. Forse è angoscia, gelosia, invidia, delusione. Dobbiamo esprimere questi dispiacere con parole. In tal modo permettiamo ai bambini di umanizzarli. Non si sopprime la sofferenza ma la si umanizza tramite il desiderio di comprendersi a vicenda»

(Françoise Dolto, I problemi dei bambini, Mondadori 2005)

Quando è opportuno chiedere aiuto?

Comportamento iperattivo, ansia, timidezza eccessiva, disturbi psicosomatici, difficoltà relazionali, rabbia, mancato rispetto delle regole, paure che durano nel tempo, difficoltà a scuola, disturbi dell’apprendimento e del linguaggio, difficoltà a mantenere l’attenzione e la concentrazione, disturbi dell’alimentazione, del sonno, dell’enuresi e del controllo sfinterico. 

Alcune volte si tratta di malesseri momentanei, che si risolvono spontaneamente nel tempo. Altre volte, invece, è necessario un piccolo aiuto esterno che permetta ai genitori di capire il tipo di difficoltà che il bimbo sta attraversando in modo da permettergli di stare di nuovo bene. Capita anche che siano gli insegnanti e gli educatori, che con il bambino lavorano tutti i giorni, ad avere bisogno di un supporto e di un parere esterno.

Come lavora lo psicologo infantile?

Lo psicologo incontra prima i genitori, in modo da capire bene il problema che li ha portati a domandare aiuto. Vede poi il bambino nell’arco di tre, massimo quattro, incontri. Segue infine un altro colloquio coi genitori durante il quale, in base a quanto emerso, si potrà decidere, se utile e necessario, di iniziare un percorso psicoterapeutico.

Specie coi bimbi più piccoli, e specie all’inizio, la parola non è il mezzo terapeutico principale. Per consentire al bambino di dire qualcosa di importante rispetto al suo disagio, prima della parola, sono importanti il gioco libero, il disegno e l’espressione creativa, canali privilegiati che permettono al bambino di esprimere le sue paure, le sue ansie, la sua rabbia e di riuscire così anche a sciogliere le tensioni e i blocchi evolutivi.

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Arte, letteratura e psicoanalisi

Chi l’avrebbe mai detto? Cappuccetto Rosso e il lupo incontrano la psicoanalisi

“C’è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata nella vita”

Schiller , I piccolomini, III, 4

Quando bambini chiedevate a mamma e papà esausti di raccontarvi per l’ennesima volta la fiaba di Cappuccetto Rosso avreste mai immaginato che dietro al lupo cattivo si nascondesse un pericoloso seduttore di ragazzine ignare? Ebbene sì. Le fiabe non sono quello che appaiono a prima vista e uno sguardo ingenuo può non coglierne il significato più profondo.

La storia letteraria della fiaba di Cappuccetto Rosso inizia con Perrault. Nella sua versione della fiaba il significato metaforico sessuale è fin troppo esplicito, è evidente che il suo lupo non è una belva rapace ma una metafora. In questa versione il lupo non indossa gli abiti della nonna ma si limita a distendersi nel letto e, quando Cappuccetto arriva, la invita a entrare nel letto con lui. Il valore della fiaba è distrutto: o Cappuccetto è proprio stupida oppure vuole essere sedotta. Cappuccetto finisce mangiata dal lupo insieme alla nonna, senza alcun lieto fine. Al termine del racconto, Perrault fornisce una spiegazione esplicita della morale: i bambini, e specialmente le giovanette carine, fanno molto male a dare ascolto alle sconosciute. Guai a chi non sa che questi lupi gentili sono, fra le creature, le piu’ pericolose!

La versione dei Fratelli Grimm è molto meno esplicita e per questo più interessante. Cappuccetto è visibilmente attratta dal lupo, benché ne sia al contempo spaventata. L’ambivalenza è palese. Una celebre illustrazione di Gustave Dorè esprime bene questo sentimento contraddittorio, attrazione e repulsione. 

La bambina è esposta, troppo precocemente, al pericolo della seduzione, anche a causa del bel cappuccetto rosso che la nonna le ha confezionato. Il mondo al di là della casa e del dovere diventa troppo seducente inducendo la bambina a tornare ad agire secondo il principio di piacere: “Guarda come sono belli i fiori intorno a te. Perché non ti guardi attorno?”. D ‘altra parte, come negarlo, il lupo cattivo non avrebbe nessun potere su di noi se non ci fosse qualcosa in noi che ne è attratto! E perché mai a Cappuccetto dovrebbe capitare l’infausta sorte di scomparire nelle fauci del lupo? E’ chiaro, è la sua meritata punizione per avere fatto in modo che la nonna venisse eliminata. Cappuccetto non risparmia certo i particolari per indicare nel miglior modo al lupo come raggiungere la casa della nonna. Si mette proprio d’impegno per farcelo arrivare… Forse vuole sbarazzarsi della nonna, concorrente femminile ben piu’ esperta di lei? Forse vuole tradirla?[1]

Arriva poi il salvatore, il cacciatore, alter ego del padre, la parte buona del maschio. Il cacciatore non uccide il lupo, si trattiene, non cede alla collera nei confronti del seduttore. L’Es viene dominato dal Super-io, l’impulso viene frenato.

E indovinate un po’? Cappuccetto Rosso corre a prendere delle pietre e con esse riempie la pancia del lupo. Eroina, impara ad eliminare il seduttore, si libera di lui con le sue stesse candide manine.

La storia non finisce qui. Cappuccetto torna una seconda volta a far visita alla nonnina malata e, una seconda volta, incontra il perfido lupo. Ma questa volta non si fa certo fregare! Corre a dirlo alla nonna e le due, in un tripudio di soddisfazione, archietettano un imbroglio degno di Arlecchino: chiudono saldamente la porta e il lupo scivola giù dal tetto, dritto dritto in un mastello colmo d’acqua nel quale annega.

Per approfondire:

Bettelheim B., Il mondo incantato, uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli 2000.

Munari B., Agostinelli M. E., Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo, Blu e Bianco, Einaudi Ragazzi 1993.

Petrosino S., Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza, Il melangolo 2013.

Vegetti Finzi S., Storia della psicoanalisi, Mondadori 1990.

[1] Verso il terzo anno di eta’ sorge una richiesta pulsionale genitale che reclama il suo oggetto. Il bambino e la bambina non possono che riconoscerlo nella persona più vicina, la madre. Il padre è vissuto come l’ostacolo e rappresenta il divieto dell’incesto. Freud riprende lo schema drammatizzato nell’Edipo di Sofocle che mette in scena, congiuntamente, l’esaudimento del desiderio (sposare la madre e uccidere il padre) con la sua interdizione (la cecità e la morte).

Ciò che nella tragedia di Edipo è rappresentato come tentativo di uccisione da parte del padre (l’abbandono del neonato) viene vissuto nell’esperienza di ogni bambino nella forma della paura della castrazione, angoscia che è tale da sospingerlo ad abbandonare l’impari contesa col padre. Tutta questa vicenda termina con la rimozione.

Gli investimenti oggettuali, abbandonati, vengono sostituiti dalle identificazioni: il bambino si identifica con l’aggressore, cioe’ lo introietta, lo assimila. L’autorità paterna e parentale, fatta propria, costituisce il nucleo del Super-Io, che è dunque l’erede del conflitto edipico.

Ma il superamento del Complesso Edipico è determinato anche da un fattore positivo, la tacita promessa che, a tempo debito, il bambino otterra’, in cambio del proprio sacrificio pulsionale, di prendere il posto del padre.

Il tramonto del Complesso di Edipo coincide con l’inizio del periodo di latenza, che va dal termine dell’infanzia sino alla pubertà (dai 6 ai 10 anni) e costituisce una parentesi di “bonaccia” tra due tempeste emotive.

Con la puberta’ gli impulsi sessuali latenti si ripresentano con rinnovato vigore e l’adolescente riattiva le tracce lasciate dalle imagines parentali. Ciò che caratterizza l’adolescenza è la capacita’ di stabilire una relazione con un oggetto totale, il partner sessuale, diverso dal genitore amato nei primi mesi di vita ma capace di riattivare le tracce remote di quell’arcaico legame (vedi Vegetti Finzi S., Storia della psicoanalisi)