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Consulenze online e rischio di svendere la professione

Condivido questa riflessione interessante della Redazione di Psicologi Online. Viene riproposto il grande tema delle consulenze psicologiche online e del rischio di svalutare, svendendola, l’importanza della professione psicologica e psicoterapeutica. Questa stessa riflessione si inscrive all’interno di un dibattito vivo e fecondo già in atto all’interno della comunità professionale. Mi riservo di scrivere presto in merito qualcosa di più approfondito.

“Buongiorno, 

Oggi vogliamo condividere con voi una riflessione sull’evoluzione
repentina della consulenza psicologica online.

Ciò che sta succedendo nel mondo ha accelerato i tempi di almeno 5-10 anni.

La consulenza psicologica online esiste da molto, ma ha sempre
rappresentato un servizio abbastanza di “nicchia”.

Ora con la pandemia, nel giro di pochi mesi, la videoconsulenza psicologica
è stata invece completamente sdoganata, sia per il grande pubblico,
sia per i diretti interessati: gli psicologi.

Anche i professionisti più scettici, rigidi e “vecchia maniera”, nel giro
di poche settimane hanno modificato le loro convinzioni e hanno
abbracciato la possibilità di svolgere la professione con una modalità
totalmente inesplorata fino ad allora: online.

Tutto questo rappresenterebbe una grande opportunità per la categoria, giusto?

Ma come hanno reagito molti psicologi? Vi è capitato di fare un giro
sui vari social e visionare le decine e decine di nuove pubblicità sullo psicologo online?

Come hanno reagito? Purtroppo come spesso è accaduto
anche in passato: svendendo la professione.

Il problema è che fare gli sconti non è marketing. Sono capaci tutti
ad abbassare i prezzi per cercare di accaparrarsi qualche persona in più.
Ma questo è un danno incredibile per le persone, per tutta la categoria
professionale e per gli psicologi stessi che accettano tali condizioni di “lavoro”.

Se un portale offre il primo colloquio gratuito, il successivo portale
gratuitamente offre gratis i primi 3 colloqui.

Se un portale svende la consulenza a 40-45 euro, il successivo portale
abbassa il tariffario a 35 euro a seduta. Ma poi arriva il sesto nuovo portale
che prova a fare il “furbo”: “noi proponiamo i colloqui da 30 minuti
anziché 60 minuti così possiamo pubblicizzare colloqui a 29 euro”.

Senza contare che gli stessi psicologi poi dovranno lasciare fino al 35%
di commissione al network che li gestisce. Mettiamoci dentro le tasse
e cosa rimane al professionista se non la tristezza di vedere per l’ennesima
volta buttato al vento il rispetto per la professione dello psicologo?

L’aspetto solidaristico ci può stare assolutamente. Va bene offrire servizi
ad hoc – limitati – per le persone meno abbienti, se abbiamo il desiderio di proporli.

Il grande danno è invece la promozione di massa di servizi psicologici 
lowcost che distruggono l’immagine della professione e confondono
gli utenti, i quali arriveranno a pensare che comprare psicologia
è come comprare il pacco di pasta nel supermercato dove costa meno, tanto è la stessa cosa.

Noi in qualche modo riusciamo anche a comprendere perché
alcuni psicologi lo fanno. Dopotutto vogliono solo lavorare. Talvolta è un
salvagente emotivo e un meccanismo di difesa. Per alcuni professionisti
la sofferenza di lavorare gratis o sottocosto è decisamente minore della
sofferenza che si proverebbe a sentirsi dei “falliti”, nei confronti di se stessi
e degli altri, per non riuscire a praticare la professione dopo tutto
l’investimento messo in atto per diventare psicologi.

Ammaliati da qualche colloquio lowcost garantito non riescono a 
comprendere che si possono avere risultati nel lungo periodo solamente
se si tratta la professione con rispetto, impegno e strategia… non svendendola.

Magari li conosciamo e siccome gli vogliamo bene non diciamo nulla.

Invece è proprio perché gli vogliamo bene, li rispettiamo, crediamo
in loro e nella professione che rappresentano, che ognuno di noi dovrebbe
prenderli da parte e chiedergli: “Come sta andando il lavoro?… Guarda,
io ti voglio bene e so che quello che stai facendo nel breve periodo sembra
portarti qualcosina. Ma a queste condizioni ti stai svendendo, sarai sempre
con l’acqua alla gola e non riuscirai mai a sostenere la tua attività in modo efficace… vali molto di più!”.

Voi cosa ne pensate?

Nella speranza che si tratti solo di comportamenti dettati dalla confusione
di questo particolare momento storico, vi auguriamo buon lavoro e vi
ringraziamo per come avete affrontato a testa alta questo ultimo anno.

A presto!

Redazione Psicologi Online”

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Disturbi psicologici e psicoterapia psicoanalitica

L’iperattività infantile in chiave psicoanalitica

Come riconoscere i bambini iperattivi?

La diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD – Attention Deficit Hyperactivity Disorder) come dice il nome stesso implica una difficoltà a mantenere l’attenzione: il bambino fa fatica a focalizzare l’attenzione sulle attività che gli vengono proposte, ha difficolta a strutturare le attività che svolge e a portarle a termine, tende ad non svolgere attività che richiedono sforzo mentale protratto nel tempo, la sua attenzione è sviata da stimolazioni che provengono dall’esterno. Parallelamente ili bambino mostra segni di iperattività: si muove con irrequietezza, lascia il proprio posto, ha difficoltà a giocare, sembra “sotto pressione”, parla troppo. Il comportamento è caratterizzato inoltre da una marcata impulsività: spesso “spara” le risposte prima che le domande siano completate, ha difficoltà ad attendere il proprio turno, interrompe gli altri, è invadente.

Che differenza c’è tra un bambino iperattivo e un bambino vivace?

Ciò che può permettere di distinguere vivacità e iperattività è il rapporto tra il movimento e le funzioni psichiche del gioco.

Un bambino vivace, pur ricavando un forte piacere fisico nel muoversi, riesce a fermare la sua attenzione sul gioco, quando esso lo richiede, magari per un tempo limitato. Usa il gioco traendone appagamento e confort. Gioca in modo chiassoso ma, fondamentalmente, intrattiene un rapporto attivo con le funzioni del gioco. Domina la sua attività, non ne è dominato.

Un bambino invece il cui corpo è preda di un movimento incessante ed incoercibile non può focalizzare la sua attenzione su un’attività, di qualsiasi genere essa sia. L’aspetto più evidente nei bambini iperattivi è la ridotta o assente capacità di gioco.

La differenza tra un bambino vivace ed un bambino iperattivo risiede dunque nell’impossibilità del bambino iperattivo di usare il gioco nelle sue potenzialità creative e pacificatici. Giocare è stare senza la madre. I bambini iperattivi non sono in grado di usare il gioco nella sua funzione di sostituto materno e neppure di costruire, grazie al gioco, una relazione creativa e piacevole con gli oggetti esterni. L’interesse e la concentrazione necessari per giocare e in seguito, con l’ingresso nel mondo scolastico, per apprendere e studiare, implicano che il bambino, per poter stare, pur temporaneamente, senza la madre, abbia utilizzato il gioco come soluzione contro l’angoscia data dall’essere solo con se stesso.

Qual è il legame tra iperattività e scuola?

Nell’iperattività vi è sempre uno scarso o mancato incontro tra il bambino e l’ordine simbolico della legge, tra il campo degli impulsi e il mondo delle regole del vivere sociale. L’adattamento alle regole della convivenza coi propri simili implica una limitazione necessaria della propria libertà, e dunque dello spazio concesso al campo degli istinti e delle proprie pulsioni. Limitazione che è feconda perché che “stacca” il bambino dalla madre aprendo il campo alla relazione con l’altro da sé, con l’apprendimento e col desiderio. Questo incontro con il nuovo implica la possibilità di fermarsi di fronte al limite posto dall’altro. Per questa ragione il sintomo iperattività si manifesta nella sua massima potenza a partire dall’inserimento del bambino nel contesto della scuola primaria, dove diviene necessario adeguarsi alle regole del vivere sociale extra familiare. Sono infatti proprio gli insegnanti i primi a rilevare i segni dell’iperattività e a segnalarli ai genitori. Nel momento che sancisce la socializzazione del bambino, ovvero l’ingresso nella scuola, il corpo del bambino iperattivo “gira a vuoto”, non è in grado di agganciarsi agli oggetti culturali. L’attenzione e la concentrazione, che a loro volta permettono di apprendere, leggere, scrivere, necessitano che il corpo si fermi: la scolarizzazione implica sempre una limitazione del corpo del bambino e dei suoi impulsi. La scuola primaria impone una regolazione al movimento fisico e richiede un’attenzione che deve potersi applicare per molte ore sulle attività intellettuali scolastiche.

Si può curare l’iperattività?

Il bambino iperattivo non esprime in parole il suo malessere, il bambino iperattivo non dice “sto male”, non piange, non si chiude in se stesso. Eppure il suo movimento frenetico ed incessante mostra che in qualche modo lui stesso avverte che c’è qualcosa dentro la sua testa che si traduce nel corpo, qualcosa che il suo stesso corpo denuncia come una forza che non controlla. E’ il suo corpo che “parla” e dice: “Non riesco a fermarmi. I miei pensieri vanno troppo velocemente”. Il bambino iperattivo chiede di essere fermato.

Tuttavia il comportamento iperattivo non è un comportamento che si può curare affrontandolo direttamente, attraverso una terapia di disciplina, di educazione al rispetto delle regole e delle norme. Il comportamento iperattivo non domanda di essere semplicemente resettato mediante un suo adeguamento al campo sociale.

L’unica via per intervenire sull’iperattività è quella di far parlare il bambino, di permettergli di mettere in parola la sua angoscia, l’unica via è quella di dargli la parola in un contesto di ascolto senza domanda. Mettere in gioco il potere della parola equivale ad introdurre un canale in cui l’impulso, la pulsione come direbbe Freud, possa defluire ed essere mitigato.

Un’assenza di volontà educativa è dunque il punto di partenza per permettere al bambino di autoregolarsi. Questo è un messaggio importante da dare anche all’insegnante che col bambino iperattivo si trova ad avere a che fare. Infatti, paradossalmente, più il bambino iperattivo avverte nell’adulto un desiderio di regolare la sua agitazione, più si sottrae alla presa dell’adulto, aumentando la sua resistenza “fisica” all’altro. Anziché recedere, “alza la posta”.

Per far digerire a un iperattivo le condizioni minime della socializzazione bisogna compiere un lungo e impegnativo lavoro di alleanza fiduciosa. La lenta ma feconda costruzione di una buona relazione, buona nel senso che accetta di escludere la dimensione educativa, è l’inizio del possibile cambiamento. Il bambino deve sentirsi libero di scaricare non nel corpo, ma nella parola, quell’eccesso che lo ingombra e di abbandonare quel sintomo che lo sovrasta.

Per approfondire questi temi:

  • Umberto Zuccardi Merli U., Non riesco a fermarmi. 15 risposte sul bambino iperattivo, Bruno Mondadori 2012.
  • Tognassi F., Zuccardi Merli U., Il bambino iperattivo. Dalla teoria alle pratiche della cura, Franco Angeli 2010.
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Disturbi psicologici e psicoterapia psicoanalitica

Anoressia: malattia dell’amore

In che senso l’anoressia è una malattia dell’amore?

L’anoressia, in alcune forme non gravi, non è soltanto un disturbo dell’appetito quanto invece una malattia dell’amore, una malattia del desiderio amoroso. L’anoressia è una patologia che può manifestarsi sia nei maschi che nelle femmine. In questo articolo tuttavia ci soffermeremo a riflettere su quelle forme, tendenzialmente non gravi, di anoressia femminile, che hanno alla base una ferita nelle relazioni d’amore. È bene precisare che il meccanismo illustrato in questo articolo non è il solo alla base dell’insorgenza dell’anoressia. 

Questo legame tra anoressia e amore è stato colto bene già dallo psicoanalista infantile Donald Winnicott. Winnicott intuì infatti che la presenza nei bambini di disturbi dell’appetito va ricondotta ad un dubbio del bambino nei confronti dell’amore dei genitori. Il bambino teme di non essere amato da loro.

L’anoressica dice di no al cibo perché non si accontenta che le venga dato solamente l’oggetto materiale. Non si accontenta che le venga dato il gioco, il vestito, il cibo. La sua domanda non è domanda di un oggetto. Ciò che invece l’anoressica domanda è che l’altro mostri il suo amore per lei.

L’anoressica si mette, con la magrezza estrema, a rischio di morte, per verificare cosa accade all’altro se la vede in pericolo di vita. L’anoressica vuole capire se l’altro può perderla, se può vivere senza di lei. La domanda che sembra porre all’altro, facendo parlare però il suo stesso corpo, è: “Tu mi puoi perdere? La tua vita avrebbe un senso senza la mia?”. 

Come ha affermato lo psicoanalista Jacques Lacan, l’anoressica sceglie di “mangiare il niente”. Il niente, infatti, mostra che una totalità di cose, una montagna di regali, non fanno l’amore.

Ci sono dei fattori scatenanti nell’anoressia?

Spesso l’anoressia inizia durante adolescenza in relazione ad un rapporto d’amore doloroso, travagliato, violento, oppure quando il rapporto d’amore si chiude. L’anoressia infatti non di rado è scatenata dalla perdita di un oggetto d’amore significativo. 

Il soggetto anoressico spesso si è trovato a vivere una cattiva iniziazione al rapporto amoroso, a volte anche traumatica. Si è prodotta in lui una ferita. La risposta del soggetto a questa ferita diventa quella di usare il proprio corpo come diga, come barriera, come scudo, come difesa. Ciò da cui il soggetto si difende è proprio la possibilità rischiosa dell’incontro d’amore. 

Il rifiuto del cibo è il simbolo, e il sintomo, del rifiuto del mondo esterno. Il rifiuto del cibo è la manifestazione del concentrarsi solo su di sé. Allo stesso tempo il rifiuto del cibo è una richiesta di aiuto, una richiesta d’amore, un appello rivolto all’altro. 

Del resto il ridurre il corpo a una magrezza estrema è anche un chiaro segno di rifiuto dell’identità sessuale. L’anoressica, con la magrezza, perde le forme femminili. Così facendo essa mostra una perdita dell’interesse per il sesso.

Come lavora lo psicoterapeuta quando ha di fronte a sé un soggetto anoressico?

Nel trattamento psicoterapeutico delle anoressie che si strutturano a partire dai meccanismi sopra esposti, che sono tendenzialmente forme non gravissime di anoressia, è fondamentale non incalzare direttamente il sintomo, ovvero la magrezza e il rifiuto del cibo, ad esempio invitando l’anoressica a mangiare. Il terapeuta dovrà lavorare invece perché rinasca il desiderio di amare. 

Del resto, tipicamente, quando il soggetto anoressico inizia a disertare la tavola imbandita, allontana anche i legami. 

Allontana i genitori prima di tutto, ma allontana anche gli amici, allontana gli interessi e le passioni. Quando, grazie alla terapia, il desiderio per la vita e per l’amore torneranno, anche l’appetito ritroverà il suo ritmo. 

Nella cura del soggetto anoressico il terapeuta potrà frequentemente constatare che un segno importante di avvio verso la guarigione è proprio il riattivarsi di un interesse amoroso e sessuale verso il mondo delle relazioni affettive. 

Certo, è anche vero che esistono purtroppo casi gravissimi di anoressia per i quali si rende perfino necessario un ricovero in comunità specializzate, dove il percorso psicoterapeutico potrà essere affiancato da altre forme di trattamento.

Per un approfondimento dei temi di questo articolo si veda:

  • Lacan J., Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964). Einaudi 1979;
  • Winnicott D. W., “Appetito e disturbo emozionale”. Tr. it. in Dalla pediatria alla psicoanalisi. Martinelli 1975, p. 51.
  • Di Massimo Recalcati si veda anche: L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori 1997; Il corpo ostaggio: Clinica e teoria dell’anoressia-bulimia. Borla 1998; Clinica del vuoto: anoressie, dipendenze e psicosi. Franco Angeli 2002; L’uomo senza incoscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica. Cortina 2010.
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Disturbi psicologici e psicoterapia psicoanalitica

Infanzia: quando è opportuno rivolgersi allo psicologo? Come si caratterizza il suo intervento?

«Quando il bambino piange, grida, il padre o la madre devono cercare il senso degli urli o del pianto, e gli dicono: “Non so perché piangi, ma stai cercando di dirmi qualcosa”. Dobbiamo sapere che tutto nel bambino significa qualcosa. Nulla è gratuito […]. Forse è angoscia, gelosia, invidia, delusione. Dobbiamo esprimere questi dispiacere con parole. In tal modo permettiamo ai bambini di umanizzarli. Non si sopprime la sofferenza ma la si umanizza tramite il desiderio di comprendersi a vicenda»

(Françoise Dolto, I problemi dei bambini, Mondadori 2005)

Quando è opportuno chiedere aiuto?

Comportamento iperattivo, ansia, timidezza eccessiva, disturbi psicosomatici, difficoltà relazionali, rabbia, mancato rispetto delle regole, paure che durano nel tempo, difficoltà a scuola, disturbi dell’apprendimento e del linguaggio, difficoltà a mantenere l’attenzione e la concentrazione, disturbi dell’alimentazione, del sonno, dell’enuresi e del controllo sfinterico. 

Alcune volte si tratta di malesseri momentanei, che si risolvono spontaneamente nel tempo. Altre volte, invece, è necessario un piccolo aiuto esterno che permetta ai genitori di capire il tipo di difficoltà che il bimbo sta attraversando in modo da permettergli di stare di nuovo bene. Capita anche che siano gli insegnanti e gli educatori, che con il bambino lavorano tutti i giorni, ad avere bisogno di un supporto e di un parere esterno.

Come lavora lo psicologo infantile?

Lo psicologo incontra prima i genitori, in modo da capire bene il problema che li ha portati a domandare aiuto. Vede poi il bambino nell’arco di tre, massimo quattro, incontri. Segue infine un altro colloquio coi genitori durante il quale, in base a quanto emerso, si potrà decidere, se utile e necessario, di iniziare un percorso psicoterapeutico.

Specie coi bimbi più piccoli, e specie all’inizio, la parola non è il mezzo terapeutico principale. Per consentire al bambino di dire qualcosa di importante rispetto al suo disagio, prima della parola, sono importanti il gioco libero, il disegno e l’espressione creativa, canali privilegiati che permettono al bambino di esprimere le sue paure, le sue ansie, la sua rabbia e di riuscire così anche a sciogliere le tensioni e i blocchi evolutivi.

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Filosofia, neuroscienze e psicoanalisi

Per Cortina “La mente orientale” di Bollas. Psicoanalisi e cultura orientale si incontrano.

Che cosa c’entra Freud con Confucio e Lao Tzu? Lo psicoanalista britannico Bollas afferma che la psicoanalisi può essere considerata una forma di pratica meditativa, affine per diversi aspetti alla pratica buddihsta e taoista. In millenni di separazione, la cultura occidentale e quella orientale avrebbero coltivato parti diverse della psiche umana, che però si ritrovano entrambe nella psicoanalisi freudiana.

Il saggio è pubblicato in Italia per Cortina.

Per approfondire: Bollas, La mente orientale

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Arte, letteratura e psicoanalisi

Chi l’avrebbe mai detto? Cappuccetto Rosso e il lupo incontrano la psicoanalisi

“C’è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata nella vita”

Schiller , I piccolomini, III, 4

Quando bambini chiedevate a mamma e papà esausti di raccontarvi per l’ennesima volta la fiaba di Cappuccetto Rosso avreste mai immaginato che dietro al lupo cattivo si nascondesse un pericoloso seduttore di ragazzine ignare? Ebbene sì. Le fiabe non sono quello che appaiono a prima vista e uno sguardo ingenuo può non coglierne il significato più profondo.

La storia letteraria della fiaba di Cappuccetto Rosso inizia con Perrault. Nella sua versione della fiaba il significato metaforico sessuale è fin troppo esplicito, è evidente che il suo lupo non è una belva rapace ma una metafora. In questa versione il lupo non indossa gli abiti della nonna ma si limita a distendersi nel letto e, quando Cappuccetto arriva, la invita a entrare nel letto con lui. Il valore della fiaba è distrutto: o Cappuccetto è proprio stupida oppure vuole essere sedotta. Cappuccetto finisce mangiata dal lupo insieme alla nonna, senza alcun lieto fine. Al termine del racconto, Perrault fornisce una spiegazione esplicita della morale: i bambini, e specialmente le giovanette carine, fanno molto male a dare ascolto alle sconosciute. Guai a chi non sa che questi lupi gentili sono, fra le creature, le piu’ pericolose!

La versione dei Fratelli Grimm è molto meno esplicita e per questo più interessante. Cappuccetto è visibilmente attratta dal lupo, benché ne sia al contempo spaventata. L’ambivalenza è palese. Una celebre illustrazione di Gustave Dorè esprime bene questo sentimento contraddittorio, attrazione e repulsione. 

La bambina è esposta, troppo precocemente, al pericolo della seduzione, anche a causa del bel cappuccetto rosso che la nonna le ha confezionato. Il mondo al di là della casa e del dovere diventa troppo seducente inducendo la bambina a tornare ad agire secondo il principio di piacere: “Guarda come sono belli i fiori intorno a te. Perché non ti guardi attorno?”. D ‘altra parte, come negarlo, il lupo cattivo non avrebbe nessun potere su di noi se non ci fosse qualcosa in noi che ne è attratto! E perché mai a Cappuccetto dovrebbe capitare l’infausta sorte di scomparire nelle fauci del lupo? E’ chiaro, è la sua meritata punizione per avere fatto in modo che la nonna venisse eliminata. Cappuccetto non risparmia certo i particolari per indicare nel miglior modo al lupo come raggiungere la casa della nonna. Si mette proprio d’impegno per farcelo arrivare… Forse vuole sbarazzarsi della nonna, concorrente femminile ben piu’ esperta di lei? Forse vuole tradirla?[1]

Arriva poi il salvatore, il cacciatore, alter ego del padre, la parte buona del maschio. Il cacciatore non uccide il lupo, si trattiene, non cede alla collera nei confronti del seduttore. L’Es viene dominato dal Super-io, l’impulso viene frenato.

E indovinate un po’? Cappuccetto Rosso corre a prendere delle pietre e con esse riempie la pancia del lupo. Eroina, impara ad eliminare il seduttore, si libera di lui con le sue stesse candide manine.

La storia non finisce qui. Cappuccetto torna una seconda volta a far visita alla nonnina malata e, una seconda volta, incontra il perfido lupo. Ma questa volta non si fa certo fregare! Corre a dirlo alla nonna e le due, in un tripudio di soddisfazione, archietettano un imbroglio degno di Arlecchino: chiudono saldamente la porta e il lupo scivola giù dal tetto, dritto dritto in un mastello colmo d’acqua nel quale annega.

Per approfondire:

Bettelheim B., Il mondo incantato, uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Feltrinelli 2000.

Munari B., Agostinelli M. E., Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo, Blu e Bianco, Einaudi Ragazzi 1993.

Petrosino S., Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza, Il melangolo 2013.

Vegetti Finzi S., Storia della psicoanalisi, Mondadori 1990.

[1] Verso il terzo anno di eta’ sorge una richiesta pulsionale genitale che reclama il suo oggetto. Il bambino e la bambina non possono che riconoscerlo nella persona più vicina, la madre. Il padre è vissuto come l’ostacolo e rappresenta il divieto dell’incesto. Freud riprende lo schema drammatizzato nell’Edipo di Sofocle che mette in scena, congiuntamente, l’esaudimento del desiderio (sposare la madre e uccidere il padre) con la sua interdizione (la cecità e la morte).

Ciò che nella tragedia di Edipo è rappresentato come tentativo di uccisione da parte del padre (l’abbandono del neonato) viene vissuto nell’esperienza di ogni bambino nella forma della paura della castrazione, angoscia che è tale da sospingerlo ad abbandonare l’impari contesa col padre. Tutta questa vicenda termina con la rimozione.

Gli investimenti oggettuali, abbandonati, vengono sostituiti dalle identificazioni: il bambino si identifica con l’aggressore, cioe’ lo introietta, lo assimila. L’autorità paterna e parentale, fatta propria, costituisce il nucleo del Super-Io, che è dunque l’erede del conflitto edipico.

Ma il superamento del Complesso Edipico è determinato anche da un fattore positivo, la tacita promessa che, a tempo debito, il bambino otterra’, in cambio del proprio sacrificio pulsionale, di prendere il posto del padre.

Il tramonto del Complesso di Edipo coincide con l’inizio del periodo di latenza, che va dal termine dell’infanzia sino alla pubertà (dai 6 ai 10 anni) e costituisce una parentesi di “bonaccia” tra due tempeste emotive.

Con la puberta’ gli impulsi sessuali latenti si ripresentano con rinnovato vigore e l’adolescente riattiva le tracce lasciate dalle imagines parentali. Ciò che caratterizza l’adolescenza è la capacita’ di stabilire una relazione con un oggetto totale, il partner sessuale, diverso dal genitore amato nei primi mesi di vita ma capace di riattivare le tracce remote di quell’arcaico legame (vedi Vegetti Finzi S., Storia della psicoanalisi)

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Arte, letteratura e psicoanalisi

Carne Cruda. Spunti psicoanalitici sul pittore Francis Bacon

«…la nostra mandria vagò

per ogni angolo di terra, passò sopra il mare

con volo senz’ali, ma non meno veloce di nave.

Ora lui è qui, rintanato in qualche canto:

mi ride un odore di sangue umano»

Eschilo, 1966, 328-329

Francis Bacon nasce il 28 ottobre del 1909 in una benestante famiglia irlandese, nel lusso e nell’eleganza. I suoi ricordi infantili dell’Irlanda sortiranno poi un effetto traumatico sui suoi quadri, soprattutto a causa della guerra civile. Il padre, Edward Bacon, è un uomo intelligente, ma limitato. Non ha amici perché litiga con tutti, è molto attaccato alle sue idee e non va affatto d’accordo con i figli. La madre è una donna fredda e distante.

Adolescente, nell’ottobre del 1926 Bacon si trasferisce a Londra dove trascorre i suoi primi anni tra i bassifondi e il Ritz, vivendo anche di piccoli furti ed alle spalle delle persone che conosce. L’omosessualità fa parte della sua natura.

La svolta nella sua carriera artistica non avviene né a Berlino né a Monaco, dove si trasferisce dopo due mesi, ma nel 1927 a Parigi, tappa finale del suo viaggio di ritorno a casa. Quando dipinge Bacon lavora dal mattino presto con un’assoluta concentrazione post-sbornia. Si getta sulla tela e lavora a grande velocità e con un vigore eccezionale. Agli amici capita spesso di vederlo di mattina, grigio in volto e quasi cieco per la stanchezza, dopo aver passato tutta la notte a bere e giocare a carte, per vederlo poi ricomparire, solo qualche ora dopo, perfettamente riposato.

Bacon si scontra molto presto con il reale, con il reale della vita, con la «crudezza del reale». A diciassette anni vede «uno stronzo di cane sul marciapiede» e d’un tratto capisce che cos’è la vita. Secondo Bacon, se ti eccita la vita, non può non eccitarti il suo opposto, la sua ombra, la morte. E se non ti eccita, ti rende perlomeno consapevole che la morte esiste, come esiste la vita: è l’altra faccia della medaglia. Una consapevolezza così lucida lo porta a vivere in una sorta di nichilismo che il pittore definisce un ottimismo «sul nulla» in cui la sensazione del momento è sempre la principale protagonista.

Questa concezione della vita si accompagna ad un ateismo radicale: «Quando si muore non serviamo più a niente. Quando sarò morto, mettetemi in un sacco di plastica e gettatemi nella fogna […] La fede è una fantasia».

Bacon afferma di essere stato sempre colpito dalle immagini di mattatoi e di carne macellata: «Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non essere io appeso lì, al posto dell’animale». Per certi versi guardare un quadro di Bacon è come guardare in uno specchio e vederci le nostre sofferenze e la nostra paura della solitudine, del fallimento, dell’umiliazione, della vecchiaia, della morte e di minacciose e oscure catastrofi. Bacon è unico per la sua capacità di rendere la carne addomesticata, ipernutrita, segnata dall’alcol e del tabacco del maschio medio metropolitano. Nei dipinti di Bacon l’uomo, rinchiuso nella sua solitudine, dietro le sbarre di una prigione, in un isolamento esistenziale più che fisico, sembra essere l’accusato in un processo nel quale sia l’artista che lo spettatore sono chiamati a essere al contempo giudici e giudicati. In questi dipinti, dunque, si riconosce una società urbana chiusa in sé stessa, la società delle persone che prendono il metrò, che si osservano di nascosto, che si trovano rinchiuse in una cabina telefonica, persone sdraiate sul divano dello psicoanalista e che giacciono nel proprio letto di nevrosi, salvando le apparenze dietro un sorriso isterico.

Asmatico, figlio di una madre assente e insensibile, bambino non desiderato, accolto amorevolmente solo dalla sua tata Nan, Bacon soffoca e grida la sua avida fame d’amore.

Il pittore si dice avido, avido nella vita, nell’arte, ingordo di ciò che il caso porterà, avido di mangiare, di bere, della compagnia di chi ama, dell’eccitazione delle cose che accadono. La sua è un’avidità che lo fa vivere alla ventura e questo atteggiamento vale anche per il lavoro.

L’ossessione che Bacon mette nei suoi quadri è esattamente l’ossessione che vede nella vita, non nella vita degli altri ma nella propria. La condizione umana è il suo unico tema e oggetto di interesse e tutto, nei suoi quadri, persino gli sfondi, non è che il paesaggio interiore di un’umanità tenzialmente disperata, cioè senza speranza. Frequenta pochi e fidati amici e dipinge molti loro ritratti e altrettanti autoritratti.

Bacon, figlio non desiderato, non ha potuto vivere pienamente l’esperienza del riconoscimento del proprio desiderio da parte dell’Altro, l’esperienza di essere attesi e voluti, nella più propria particolarità. Uno stadio dello specchio non ben attraversato a causa della mancata presenza dello sguardo benevolo dell’Altro. Gli specchi di Bacon d’altra parte sono tutto ciò che si vuole, fuorché delle superfici riflettenti. Uno spessore opaco, talora nero, il corpo si trasferisce nello specchio, vi prende dimora insieme alla sua ombra. I suoi volti perdono la loro forma subendo le operazioni di pulitura e di spazzolatura, che lo disorganizzano, facendo sorgere in suo luogo la testa. Volti in frammenti, come in frammenti è il corpo al di qua dello specchio, un corpo senza immagine, un corpo ingovernabile, impossibile da unificare, informe. Bacon è stato decisamente spietato con il proprio volto. Le distorsioni diventano regolarmente deformazioni, la guancia destra tende ad accrescersi in una tumefazione, oppure, all’occasione viene grottescamente compressa, come se fosse stata dilaniata da una granata. Bacon era solito dire di detestare la sua faccia da budino, come la definiva. Già nei primi autoritratti Bacon sottolinea le guance marcate, esagerandole fino al grottesco oppure addirittura dilaniandole completamente. Gli autoritratti della maturità, invece, appaiono un po’ addolciti, quasi femminei, una toccante rappresentazione dell’uomo di mezza età, che ha imparato ad accettare il proprio aspetto e che si sforza di salvare l’apparenza con un il lieve accenno di rossetto e i capelli tinti. Gli autoritratti, ancora più degli altri ritratti, davanti allo specchio o con l’ausilio di foto scattate in cabine automatiche, sono incentrati sulla fugacità e sulla morte. In effetti ciascuno di noi necessita di una quota di idealizzazione, ciascuno di noi necessita di non vedersi per quella «merda» che è, c’è bisogno che il nostro corpo reale, fatto di viscere, di carne, di secrezioni, di sudore, di organi che si corrompono col tempo, destinati alla morte, che tutto questo inferno reale sia rivestito dall’immagine ideale. E’ necessario il rivestimento immaginario del corpo perché il corpo non faccia orrore.

Bacon ritaglia e conserva nel suo studio le fotografie, le cartoline dei luoghi che lo hanno colpito, i ritratti degli amici. Raccoglie di tutto nel suo atelier, quasi fosse un modo molto più efficace per rappresentare la vita, piuttosto che ritrarre i modelli dal vero. Proprio come un animale porta nel nido cibo e oggetti utili alla sopravvivenza, così Bacon ricopre di cose il pavimento del suo studio. Le cassette di vino o champagne vuote concorrono all’effetto di accumulo voluto. Per Bacon l’appartamento/atelier serve esclusivamente a dipingere. Vicino al letto, il grande specchio rettangolare spezzato, sommariamente fissato con nastro adesivo, doveva ricordargli il Grand verre di Marcel Duchamp e faceva eco al famoso specchio rotondo dello studio. La fotografia del suo studio, riprodotta in diversi libri, mostra una Babele cosparsa da una montagna di detriti che non lascia libero nemmeno un angolo; lo spazio di lavoro è invaso dall’immondizia, di cui l’attività pittorica fornisce, a suo modo, la rappresentazione. Scacco dell’accesso ad un sistema difensivo ossessivo. L’ossessivo pulisce. Bacon ammassa.

Per approfondire:

Anzieu D., Francis Bacon, Ananke (2009).

Bacon F., La brutalità delle cose. Conversazioni con David Sylvester, Edizioni «Fondo Pier Paolo Pasolini» (1991).

Chiappini R. a cura di,  Bacon, Catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale 5 marzo-29 giugno 2008), Skira 2008.

Deleuze G., Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet 1981.

Eschilo, Le Eumenidi, in Le tragedie, Einaudi 1981.

Farson D., Francis Bacon. Una vita dorata nei bassifondi, Johan & Levi 2011.

Freud S., Metapsicologia in Opere 1915-1917, Vol. VIII, Boringhieri 1976.

Lacan J., Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Scritti, Vol. I, Einaudi 1974.

Lacan J., Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, Einaudi Ragazzi 1994.

Recalcati M., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, 2011.Cappuccetto Rosso, Verde, Giallo, Blu e Bianco

Recalcati M., Lavoro del lutto melanconia e creazione artistica, Poiesis 2009.

Recalcati M., Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri 2009.